mercoledì 26 gennaio 2011

FIRE IN CAIRO

I paesi musulmani del Mediterraneo, i nostri vicini più prossimi, ed al tempo stesso mondi lontani. Mete di vacanza e di latitanza sempreverdi, per noi italiani.
La Tunisia e l'Egitto bruciano di una ritrovata coscienza politica del popolo che alcuni analisti internazionali avvisavano da tempo ma nella quale nessuno sembrava dare vero credito. Studenti, operai, giornalisti, intellettuali e, udite udite, donne, si sono riversati nelle strade di Tunisi e del Cairo a rivendicare diritti della cui mancanza siamo, almeno in parte, direttamente responsabili, come italiani e come europei.
Ben Ali, classe 1936, presidente della Tunisia dal novembre 1987 dopo quello che è passato alla storia come il colpo di stato medico ai danni dell'eroe nazionale Bourguiba, è volato in Arabia Saudita dopo il niet di Malta e dell'Italia.
Esatto, la stessa Italia che ne aveva appoggiato l'ascesa al potere, con Craxi ed Andreotti in prima fila a soffiare il posto ai cugini d'Oltralpe nella corsa al telecomando dell'antico regno di Annibale, avrebbe rimbalzato l'ormai sgradito ex premier tunisino.
Leila Trabelsi, moglie di quest'ultimo, ha invece passato le ultime ore nel suo paese a replicare il comportamento degli ultimi ventitrè anni: derubandolo. Certo, le cassette di sicurezza erano intestate alla sua famiglia, ma il modo in cui sono state riempite e poi svuotate di quella tonnellata e mezza d'oro, il disgustoso dominio dell'allargatissima famiglia presidenziale (pare, soprattutto, del ramo Trabelsi), la corruzione, richiamano alla mente un solo concetto, quel del furto, dell'ennesimo insulto ad un popolo sin troppo paziente per troppo tempo.
In tutti gli anni del dominio Ben Alì nessuna riforma in senso democratico, solo persecuzione degli oppositori e riforme costituzionali ridicole per eliminare il limite di durata del mandato presidenziale.
L'intellighenzia ci ha inculcato per due decenni e più l'idea che la Tunisia fosse un paese moderato, libero, assimilando la sola laicità a questi concetti, trascurando lo smantellamento di molti diritti fondamentali a vantaggio di un'oligarchia a conduzione familiare. Tutto questo perché Ben Alì ha attratto nel suo paese enormi investimenti stranieri, molti italiani, con politiche fiscali vantaggiose per le aziende, insofferenza verso i lavoratori ed un'ospitalità discutibile verso un corrotto contumace oggi celebrato come un pilastro della nostra nazione.
Invece, signori, la Tunisie n'est pas Afef, habituée degli italici salotti, tuttologa catodica di un Maghreb in cui ha trascorso meno della metà della sua vita dorata da figlia di ministro, non certo da popolana.
I tunisini hanno dimostrato al mondo, e soprattutto agli italiani, di non essere solo dei musulmani meno integralisti di altri. Hanno tirato fuori la forza delle disperazione, come quella di chi si da fuoco per protesta perché la polizia gli sequestrato le verdure che cercava di vendere per sfamare i suoi figli, hanno innalzato la dignità al di là dei fucili delle milizie del regime con i sassi, come stanno facendo gli egiziani.
Al Cairo domina dal 1981 Hosni Mubarak che no, non ha parenti chiacchierate in Italia nonostante i crediti millantati da vari personaggi di recente. In compenso può in Egitto due figli degni di nota. Jamal ed 'Alà hanno contribuito a far precipitare il loro paese al 70esimo posto nella classifica della corruzione (non temete, noi teniamo botta con un indegno 45esimo posto) ed il caro padre nei sondaggi.
Mubarak rimane comunque forte presso l'opinione pubblica, è garantista nei confronti delle diverse confessioni religiose, ha contrastato il terrorismo, ha una buona reputazione diplomatica ed è il più accreditato leader arabo, ma i suoi avversari hanno intravisto il rischio non troppo remoto di una successione di padre in figlio. La Siria insegna, perciò hanno colto al balzo la palla lanciata dai tunisini. Anche i lavoratori egiziani vivono tempi molto bui da anni, i servizi sono scarsi, la mobilità sociale bassissima.
Perciò si battono, vanno in piazza, protestano.
Quella che abbiamo di fronte è una questione enorme e complessa, fatta di coraggio, che tunisini ed egiziani ostentano con orgoglio e, perché no, anche con imprudenza, mentre noi, che cosi spesso ci siamo eretti a loro giudici, ci crogioliamo nell'immobilismo del puttanesimo.
Dove fuggirebbe Silvio in caso di rivolta? La domanda sorge spontanea.


(Il titolo, peraltro calzante, è biecamente scopiazzato da una delle mie canzoni preferite: perdonatemi Cure, non ho resistito)

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