lunedì 21 ottobre 2013

LETTERA A GIORGIO AIRAUDO

Gentile On. Airaudo,

le scrivo a seguito del nostro scambio di questa mattina su Twitter, lieta che abbia accettato di confrontarsi, al contrario di chi pensa che i social network possano essere un mezzo di comunicazione univoco come la tv e non sprecano il proprio tempo rispondendo a questo e quello.  
Mi presento, in breve: sono Francesca, ho 29 anni e lavoro da quando ho finito le superiori. Mi sono laureata e “masterizzata” lavorando tutto il giorno, e ho fatto mille mestieri diversi – alcuni dei quali considerati “privilegiati”, come quelli in banca e in assicurazione – e sono ancora oggi un tempo determinato. Vorrei raccontarle, da precaria quale sono, qual è la percezione che molti giovani nella mia situazione hanno oggi del sindacato. Non si tratta ovviamente di un attacco alla sua persona, bensì di una serie di impressioni maturate in dieci anni di lavoro. Ovviamente ho conosciuto anche sindacalisti profondamente impegnati, calati nel ruolo e spesso in difficoltà nello spiegare ai lavoratori le decisioni prese dal proprio sindacato. Erano i delegati a me più vicini, che conoscevano il disagio quotidiano e sapevano cosa non andava. Erano quelli senza alcun potere nel sindacato, quelli che ascoltavano ogni giorno tutte le rimostranze possibili e se ne facevano portavoce. Al tempo stesso, ho avuto modo di trovarmi davanti anche altro.

Ho visto sindacalisti sparire dall’ufficio per giornate intere in permesso sindacale per andare a fare gli affari propri.

Ho visto sindacalisti sponsorizzare con successo notori fagnani (lei è piemontese e capirà) per far ottenere loro promozioni ed avanzamenti di carriera.

Ho visto sindacalisti fare carriera a loro volta, quando un tempo chi si spendeva nel sindacato sapeva che non avrebbe avuto vita facile.

Ho visto sindacalisti sbracciarsi in difesa degli abbonati alla mutua e per quelli che facevano bollare il cartellino dai colleghi.

Ho visto sindacalisti che all’inizio dei contratti venivano a suggerire “Non iscriverti al sindacato, potrebbe metterti in cattiva luce agli occhi della Compagnia”.

Ho visto sindacalisti plaudere a piani di riorganizzazione aziendale ignoti al resto del mondo, di quelli che “non sappiamo che fine faremo”,  dicendo ai colleghi “State tranquilli, siamo in buone mani”.

Ho visto e sentito sindacalisti, nella fattispecie un delegato di rilievo nazionale di CGIL assicurativi, rispondermi “Lo sapevi quando sei stata assunta che il tuo contratto era a tempo determinato, quindi adesso di che ti lamenti?” Ovviamente su Torino non c’è stato nessuna trasformazione a tempo indeterminato.

Ho visto i sindacati impegnarsi per rendere impossibile licenziare fannulloni conclamati e in malafede nel settore pubblico.

Ho visto i sindacati opporsi all’impiego di stagisti desiderosi di imparare nelle redazioni dei giornali perché “prima devono trovare collocazione gli iscritti all’ordine ad oggi disoccupati”.

Ho visto i sindacati battersi contro la detassazione degli straordinari in un anno in cui ne avevo fatti moltissimi e non riuscivo a crederci.

Vedo i sindacalisti cancellare il concetto di meritocrazia quotidianamente, insieme ai governi che si sono succeduti, ai partiti e al complesso delle pubbliche istituzioni di questo paese, abbassando sempre di più l’asticella a scapito di chi vorrebbe provare a crescere mettendoci prima d’ogni cosa sudore e impegno. Sembra che si vogliano garantire le stesse condizioni all’arrivo e non in partenza, e questo è sbagliato da talmente tanti punti di vista che nessuno sano di mente potrebbe comprendere come sia possibile, consciamente o meno, mirare ad un simile obiettivo.

Vedo i sindacati cercare di garantire soprattutto i già ampiamente garantiti. Posto che ormai il tempo indeterminato è una chimera, possiamo almeno cercare di azzerare i tempi tra un contratto e l'altro, in modo che flessibilità per noi non voglia dire solo "piegarsi" nell'accezione peggiore del termine?

Vedo i sindacati incassare centinaia di milioni di euro all’anno in tessere, non so dove vanno a finire tutti quei soldi e non posso fare a meno di chiedermelo.

Non vedo sindacalisti opporsi alle nuove schiavitù, per esempio alle “collaborazioni” da 15 ore al giorno non pagate negli studi di fior di professionisti, non li vedo più fare uno sciopero che abbia senso – tre ore oggi con la CGIL, quattro ore venerdì con UIL, mezza giornata giovedì i COBAS, tutto per non ottenere un tubo – nemmeno per le cose davvero importanti, non li vedo fare proposte di legge per abolire un’ingiustizia come i costi scandalosi per l’unificazione dei contributi, e questi sono solo alcuni esempi. In compenso vedo una decadenza senza pari, li vedo fare la fila per entrare in Parlamento, come se quello fosse l’approdo naturale di un sindacalista di carriera che ha dimenticato cosa fanno colletti bianchi e blu, preferendo il ben più morbido e confortevole cashmere rosso.

Come avrà capito, mi mancano solo le navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione e poi avrò visto davvero di tutto.

Sono di Sinistra e vedere tutto questo mi provoca un dolore enorme. Sono tra quei giovani che vogliono andarsene, Onorevole, perché rebus sic stantibus, con degli amici del genere, sindacati, partiti, governi, noi giovani non abbiamo bisogno di nemici.  

Mi creda: questo davvero non è un attacco alla Sua persona, tengo a ripeterlo. Sono certa della sua buona fede e della sua volontà di cambiare le cose secondo quelli che sono i suoi ideali e le sue prospettive. Ho solo deciso di smettere di lamentarmi e di provare a dire cosa non va. Non costa nulla, e se lo facessimo in tanti forse potrebbe cambiare tutto.

Un saluto

Francesca Papasergi

 

LA GENTILEZZA DEGLI ESTRANEI (E ALTRE COSE CHE HO IMPARATO IN AMERICA)

Questa è l'ultima notte in America, almeno per questo giro. È venerdì ma ho deciso che il pezzo andrà on line di lunedì, quando tutti sono incasinati, leggono di fretta e si lamentano del fatto che è lunedì, il maledetto primo giorno dopo il week end. Così facendo forse pochi capiranno quello che questo viaggio è stato per me, ma forse è davvero questo quello che voglio, continuare a mimetizzarmi mentre cerco di realizzarmi, lasciar pensare che ho sorvolato l'Atlantico solo per mangiare hot dog dai carretti e tirarmela sulla 5th Avenue. 
Non è così ovviamente. Ho un obiettivo, sto cercando di concretizzarlo qui visto che nel mio paese, allo stato attuale, sembra impossibile, e non mollerò finché non ci avrò provato fino in fondo. 
In queste tre settimane ho imparato alcune cose, e desidero condividerle perché credo che siano parte di quello che ci serve per rimettere in moto il nostro malandato paese. Sono cose che non hanno a che fare con chi governa, non dobbiamo aspettare il giorno del voto per poter fare qualcosa, non fanno guadagnare denaro ma non ne tolgono. 
Dipendono solo ed esclusivamente da noi.
1) Smettere di lamentarsi sempre per qualunque cosa. Dal tempo al lavoro, dal traffico alla pasta scotta, gli italiani hanno il vizio a lamentarsi di tutto senza mai alzare un dito per cambiare lo status quo quando è possibile. La lagna continua non solo non intacca una situzione negativa, ma peggiora pure l'umore. La frase "sii il cambiamento che vuoi vedere" è una verità incontrovertibile, che ci piaccia o meno. 
2) Stamparsi un sorriso sulle labbra prima di uscire di casa. Per chi soffre di emicrania come me esiste il corollario quando sarà passata l'emicrania, stamparsi un sorriso sulla labbra prima di uscire di casa. Non dovete ridere come cretini, solo non avere l'aria di chi va al patibolo mentre va in ufficio, in negozio o in fabbrica. Guardatevi intorno sull'autobus, al mattino. Sbirciate nelle auto altrui. Sembra di stare in un film sugli zombie. Abbiamo tutti dei problemi, più o meno gravi, di diversa natura. Sorridere non li farà sparire ma almeno vi aiuterà a non essere apparire come la personificazione dei vostri casini. Me lo ha insegnato una signora malata di cancro. "Quando me ne andavo in giro con la faccia depressa avevano iniziato a identificarmi con il tumore. Ecco Allison, quella col cancro. Io ho un tumore, non sono un tumore. Non sono ancora morta, santo cielo. E se poi vinco io? Sorridi ragazza, ne vale la pena". Grazie, Allison. 
3) Il futuro è pieno di opportunità è la prima frase che ho letto appena atterrata in America. Era la pubblicità di una banca ma, come mi è stato fatto notare, la pubblicità dice molto  sull'immaginario e sui valori del popolo al quale parla. Le nostre si sperticano nel celebrare solidità inesistenti e tradizioni ormai andate a male. Non riusciamo più a guardare al futuro. Ho sempre avuto sogni e progetti da vendere, ma io stessa mi ritrovo spesso a sentirmi vecchia perché ho già quasi ventinove anni. Nell'udire questa considerazione il professor Tim Harper mi ha fatto un sorrisone e mi ha detto "Come on Francesca, you are only twenty-nine years old!" Andiamo a prendere le opportunità che ci vengono offerte e scoviamo quelle a cui vogliamo offrirci. Anche se sono lontane da casa. Anche se costano molti sacrifici. Nessuno dice che sia facile, ma è assolutamente necessario. 
4) Smettere di accettare passivamente le vessazioni potrebbe tranquillamente essere il corollario al punto 1. Non ci sono più manifestazioni in Italia. Non si scende più in piazza, qualunque cosa accada. Molti problemi sono comuni ma non vengono più socializzati. Morale: le persone sembrano preferire un approccio individuale ma sono i grandi numeri a mettere in moto i cambiamenti. Gli aggregatori di un tempo, partiti e sindacati, non solo hanno fallito ma rappresentano i problemi stessi, il movimentismo langue (il Movimento 5 Stelle è ormai un partito, mi spiace per chi pensa il contrario). Un esempio? La sales tax negli USA varia da stato a stato ed è compresa tra l'1% e il 10%. Quando ho detto al commesso dell'Apple Store a quanto ammonta la nostra IVA sullo stesso prodotto che lui mi stava vendendo si è fatto scappare un "Seriously? Twenty-two percent? Can the guys over there sell anything different from bread? In the US, there would be riots everyday". Avete sentito volare una mosca in proposito, da noi? L'IVA è aumentata di due punti percentuali in due anni e noi muti. Immobili. E fosse solo l'IVA mi consolerei.
5) Non sottovalutare l'importanza della gentilezza verso gli estranei (e quella da parte loro). Non si tratta di fare regali o di dire sempre di sì. Sono piccole gentilezze, complimenti, azioni banali ormai cadute in disuso: qui vanno alla grandissima e hanno un potere enorme sull'umore. Dal "Ciao, come va oggi?" rituale quando entri in un negozio - dove è difficilissimo che qualcuno non ti dica "Buongiorno" - all'incoraggiamento per il nuovo lavoro in ascensore se si nota una faccia nuova, si cerca di passare energia positiva. Non vuol dire che a New York non ci sono i maleducati, gli egoisti o gli stronzi: quelli sono internazionali e sin troppo numerosi ovunque. Questo è solo un modo diverso di fare capolino nella vita di un altro per renderla migliore, goccia a goccia.
Forse in Italia queste regole non mi serviranno, ma qui a New York, per me, hanno fatto la differenza. E spero possano farla anche a casa mia.
Goodbye, New York. I'll be back as soon as possible.

lunedì 7 ottobre 2013

IT'S (NOT) ALWAYS SUNNY IN PHILADELPHIA

"We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these there are Life, Liberty and the pursuit of Happiness". 
Questa frase, la pietra miliare del sogno americano, è contenuta all'interno della Dichiarazione d'Indipendenza, scritta da Thomas Jefferson e ratificata a Philadelphia nel 1776. Non potrebbe esserci posto più diverso da New York. La differenza è palpabile: Philly, come la chiamano i suoi abitanti, è una bella città, ricca di monumenti, ma non ha nemmeno la metà della luce di New York. E credetemi, non parlo di qualcosa che si può risolvere con una bolletta dell'energia elettrica più salata. 
Volevo visitare questa città per mettermi sulle tracce di chi il sogno americano l'ha creato, ma grazie allo shutdown del governo è stato molto più semplice incontrare chi quel sogno l'ha inseguito e realizzato partendo dal nostro paese. 
La pasticceria della famiglia Varallo è a South Philly dal 1973. Entrando, hai la sensazione di essere teletrasportato nel Sud degli anni '60: l'arredamento, la musica di sottofondo, tutto grida Italia a gran voce. "Mio padre è di Montella, il paese delle castagne. Mia madre è di Paternopoli, in provincia di Avellino. Sono arrivati a Philadelphia quarant'anni fa. All'inizio è stata dura. Non parlavano la lingua e soprattutto mia madre ci ha messo parecchio ad ambientarsi. Paternopoli è davvero un paese piccolo, per lei era tutto nuovo, era spaventata. Poi hanno aperto la pasticceria e lavora oggi, lavora domani, oggi possono permettersi di tornare in Italia tre volte l'anno. Hanno lavorato tanto, i miei. Tutte le volte che tornano dall'Italia dopo un viaggio mi dicono che gli manca il sole. Qui piove spesso. L'ultima volta mi hanno detto che sentiranno sempre la mancanza di casa, ma che non tornerebbero mai e poi mai indietro. Io non ci vado da un po'. È così brutta la situazione?" 

City Coffee, la tavola calda in cui mi fermo a pranzare nella piazza retrostante l'enorme palazzo comunale di Philadelphia, appartiene a Cosimo. Sento il suo accento inconfondibile e mi presento. 
Pugliese, in America da 21 anni, Cosimo mi chiede immediatamente "Come va a casa?" 
Non so da dove cominciare e cerco di glissare, ma è curioso. Provo a descrivergli gli ultimi 10 mesi di politica italiana e mi ferma. "Questa è una delle ragioni per le quali sono partito 21 anni fa. Non riusciamo mai a metterci d'accordo su niente, ognuno pensa agli affari suoi e tutto va male. Qui ho trovato lavoro in fretta. Non ti regalano niente: agli americani non piacciono quelli che non lavorano, ma se dimostri che vuoi fare e ti impegni ti accolgono come un figlio. È un paese costruito dagli immigrati, e se rispetti la legge e ti comporti bene difficilmente hai problemi. Oggi possiedo questo bar e ho appena aperto un ristorante a South Philly. Se passi di lì, ti accorgerai di quanto è grande la comunità italiana: sono tutti di seconda o terza generazione. I turisti di solito non ci vanno: fatti riconoscere, faranno a botte per offrirti la cena". 

È il destino di noi italiani o solo una contingenza che dura da più di un secolo?

domenica 6 ottobre 2013

AUTUMN IN NEW YORK #3

Chi passa la notte nei ricoveri per senzatetto, in stazione o rannicchiato in un vecchio cartone sul marciapiede non ama farsi fotografare, e rubare uno scatto da lontano sarebbe scorretto, per questo non troverete foto in questo post. Molti però accettano di fare due chiacchiere e raccontare come sono finiti a vivere la propria vita un quarto di dollaro alla volta. I loro trascorsi sono spesso sfortunati: nella maggior parte dei casi sono segnati dalle più diverse dipendenze, alcool, droga, gioco. Spesso si tratta di persone che hanno perso tutto insieme al lavoro, a volte di ragazzi che a NY non hanno trovato la fortuna che speravano e vogliono tornare a casa. Alcuni altri hanno scelto di vivere così.
Anna Maria, per esempio, ha 72 anni ed è arrivata qui dall'Italia quando ne aveva 39, senza istruzione e senza aspirazioni che andassero oltre il trovare un lavoro in fretta. Ha lavorato in una lavanderia fino ad agosto dello scorso anno, mese in cui si è rotta un piede. "La guarigione è stata molto lenta e quando sono tornata avevano trovato un rimpiazzo più giovane. Non mi volevano più. Sono sola qui, non ho nessun parente, i mariti delle mie amiche non mi vogliono in casa. I risparmi sono finiti in fretta, l'assegno mensile non basta per pagare l'affitto e la strada mi sembrava la soluzione migliore. L'inverno che sta per arrivare sarà il mio primo da senzatetto per me. Non so cosa fare". 
Jason ha 23 anni, ma ne dimostra a malapena 15. Ha ancora l'acne ed è magro da far spavento, ma è allegro. L'essere giovane lo aiuta ad avere comunque fiducia nelle sue possibilità. Espone un cartello: MI MANCANO SOLO 3 DOLLARI PER ANDARE A CASA! Gliene do cinque, lui scatta in piedi e mi abbraccia. Gli chiedo dov'è casa, per lui. "Nel glorioso stato dell'Indiana, sweetie. Stavolta non mi è andata bene a New York. Il proprietario dell'appartamento che avevo trovato su Craiglist mi ha fregato 2.500 verdoni, peccato che non ci fosse nessun appartamento. Però giuro che torno, è solo questione di tempo". Insiste per lasciarmi il suo numero di cellulare e l'indirizzo di casa: "Se decidi di fare un salto nell'Indiana, fatti sentire. Non faccio mica il barbone da quelle parti. Ti porto a mangiare un hamburger fantastico". 
Kenny ha 53 anni, è un afroamericano altissimo, così massiccio da dare l'idea di poter facilmente abbattere un grattacielo a mani nude, ma i suoi denti sono a pezzi e la sua pelle è in condizioni pietose. È un fumatore di crack. "Io sono di qui, sai? Sono nato e cresciuto a Yonkers, io. Mica come questi tassisti pakistani o indiani. Io non avevo bisogno di guardare la cartina, quando guidavo il mio taxi". E perché non fai più il tassista, gli chiedo. "Mi hanno beccato a guidare completamente strafatto. Niente lavoro, niente casa, niente di niente. Questa città sa essere veramente una stronza, ma se stai pensando di venire a vivere qui, e vuoi lavorare... È ancora il posto migliore in America". 

(CONTINUA)